22° giorno di quarantena
La drammatica esperienza del Coronavirus ci offre molte angolature da cui osservare questo incredibile evento.
Senza dubbio, da una parte ci permette di guardare dentro di noi; di rileggere e forse riscrivere, i parametri della nostra vita, provando a vivere processi dimenticati di interiorità e di silenzio; di ridisegnare, nelle nostre mappe mentali, nuove spazialità esistenziali e nuove progettualità di senso, orientate, senza dubbio, ad un diverso futuro.
Dall’altra, tuttavia, ci proietta, come in una sorta di caleidoscopio, ad una visione plurale, collettiva e politica. Il Coronavirus si presenta come una cartina al tornasole e ci offre uno spaccato indicibile degli squilibri che stiamo vivendo e con cui stiamo convivendo, facendo finta di non rendercene conto. Il mondo dei ricchi e dei poveri, quello dei tutelati e dei non tutelati, dei possessori di casa e dei senza dimora, dei lavoratori e dei disoccupati, dei lavoratori con contratto e dei lavoratori senza contratto. Queste realtà a confronto ci fanno cogliere che il Coronavirus, forse in maniera ancora più impietosa, sta inviando un messaggio senza appello. Questo virus non guarda alla pelle, al reddito, alla geografia, quindi o riusciamo a ricostruire un mondo più equo e più dignitoso oppure tutti vivremo l’angoscia di questi giorni tristi. Non è un maleficio purtroppo, ma una evidente realtà.
E questa riflessione si allarga ulteriormente a livello planetario. I Paesi del Nord (l’Italia, l’Europa, gli Stati Uniti), che comunque non stanno dando un grande esempio di collettività e di mutualità in questi giorni di emergenza, non possono chiudersi nelle proprie cittadelle una volta finita l’angoscia, continuando, dopo secoli di colonialismo becero e infamante, a gridare il blasfemo “chi vuole Dio che se lo preghi” o il peggiore, perché davvero ideologico, “aiutiamoli a casa loro”.
Il Coronavirus farà vere e proprie stragi, ancora più eclatanti delle tante devastazioni che noi occidentali abbiamo fatto finta di non vedere, come la SARS-COV, come l’Ebola, come il flagello delle locuste che sta invadendo Eritrea, Etiopia, Somalia, Sud Sudan, Uganda.
I drammatici appelli lanciati da Abiy Ahmed Ali (Primo Ministro dell’Etiopia e premio Nobel per la Pace 2019) e da Denis Mukwege (ginecologo congolese, premio Nobel per la Pace nel 2018 e fondatore dell’ospedale Panzi Hospital a Bukavu, Congo orientale) ci fanno accapponare la pelle.
Essi ci dicono di come nei loro paesi, e anche in moltissimi altri paesi dell’Africa e del sud del mondo, l’accesso ai sevizi sanitari di base siano un’eccezione piuttosto che una norma: lavarsi le mani è un lusso insostenibile per metà della popolazione, dato che non si ha accesso all’acqua pulita, ed è una totale emergenza il tenue approvvigionamento e la necessità di sicurezza alimentare.
Il Covid-19 ci insegna che siamo tutti cittadini globali collegati da un singolo virus che non riconosce nessuna delle nostre diversità naturali o artificiali: non il colore della nostra pelle, né i nostri passaporti, né gli dei che adoriamo. Per il virus ciò che conta è la nostra comune umanità – Abiy Ahmed Ali
In definitiva il Coronavirus, per una volta, ci sta rendendo tutti uguali. A partire da questa uguaglianza, dobbiamo innanzitutto riscrivere le politiche di coesione nel nostro paese, per una lotta seria ed incisiva alla povertà, per un’inclusione dignitosa delle fasce vulnerabili, per una politica dell’abitare e del lavoro per chi ne è privo, per un’educazione popolare per tutti, per la tutela dei diritti di tutti. Di conseguenza, lavorare ad una nuova politica di cooperazione internazionale, non solo dell’Italia ma di tutto il Nord dei paesi ricchi, non più nella logica nel neo-colonialismo o ancora peggio di uno sfruttamento che persiste sotto gli occhi di tutti, ma nella logica dei cambiamenti strutturali, come la risoluzione del debito pubblico dei paesi poveri, un investimento da Global Fund reale ed incisivo, una co-progettazione davvero dal basso, sulle reali priorità ed esigenze dei paesi che non saranno mai, altrimenti, in via di sviluppo (anche se li chiamiamo così da decenni, ahimè).
Ecco quanto mi evoca stare nel mio “buen retiro”.
E penso, per chiudere, a quando sia cambiato il clima di appena pochi mesi fa, in cui ogni giorno eravamo in ascolto di messaggi di paura e terrore provocati intenzionalmente per fini meramente elettorali.
Oggi finalmente siamo di fronte, purtroppo, a problemi davvero seri e reali.
Vincenzo Castelli
Foto di cottonbro
L’articolo Riflessioni ad alta voce proviene da On The Road Cooperativa Sociale.